Due figli e due misure
La Cassazione dice (giustamente) che chi vuole adottare un bambino non può scegliere le sue caratteristiche etniche e genetiche. Ma allora perché dovrebbe essere possibile selezionare embrioni nella fecondazione in vitro?
E’ davvero unanime il plauso per la sentenza con la quale, il 28 aprile scorso, la Cassazione ha sancito che “il decreto di idoneità all’adozione pronunciato dal tribunale dei minorenni non può essere emesso sulla base di riferimenti all’etnia dei minori adottandi, né può contenere indicazioni relative a tale etnia”, e con la quale ha stabilito anche che non sono ammissibili preferenze per “determinate caratteristiche genetiche” dei bambini candidati all’adozione. Chi vuole adottare un bambino, insomma, non può selezionarne le caratteristiche più gradite, né etniche né genetiche.
Sarebbe logico aspettarsi che quel compiacimento generale per il rafforzamento giuridico di un principio basilare – un figlio non deve rispondere ai desideri dei genitori ma va accolto per quel che è, perché è la sua qualità di essere umano a prevalere su tutto – potesse estendersi, per analogia, ai figli della fecondazione artificiale. Se lo augura l’onorevole Rocco Buttiglione: “La Cassazione ribadisce il principio che un bambino non è un giocattolo per soddisfare i desideri degli aspiranti genitori, ma un essere umano, una persona, con diritti propri da rispettare comunque egli sia. Allora non vale lo stesso principio anche nel caso della selezione degli embrioni? E della selezione delle caratteristiche degli embrioni?”.
Dovrebbe valere lo stesso principio, infatti. Ma la rivoluzione antropologica inaugurata nel 1978 con la nascita di Louise Brown, la prima figlia della provetta, oppone molte resistenze a quell’analogia. Gli esseri umani allo stato embrionale concepiti in vitro, fuori dal corpo materno, appaiono sempre più ridotti a cose: sostituibili, manipolabili, scartabili, selezionabili, privi di valore per se stessi, dato che il loro valore è stabilito, di volta in volta, da chi giudica della loro idoneità a realizzare i desideri di una certa coppia. E quanti, tra coloro che si scandalizzano per chi non vuole in adozione un bambino con la pelle diversa dalla propria, è disposto a scandalizzarsi o semplicemente a inquietarsi se si chiede di selezionare in vitro le caratteristiche del figlio, o se si mette in conto che un certo numero di embrioni prodotti nelle pratiche di procreazione artificiale saranno destinati a non essere mai impiantati? In Italia non succede, grazie alle regole della legge 40, ma c’è chi lotta strenuamente perché quelle regole siano smantellate.
Il filosofo del diritto Francesco D’Agostino, presidente onorario del Comitato nazionale di bioetica, dice al Foglio che “una sentenza come quella della Cassazione in tema di adozioni dovrebbe poter mandare un segnale di coerenza anche per quanto riguarda i figli della fecondazione in vitro. Non dobbiamo dimenticare, comunque, che chi vuole adottare è soggetto a una valutazione preliminare della magistratura, cosa che certo non avviene per le coppie che chiedono di avviare pratiche di procreazione artificiale. Nel caso delle adozioni, il potere decisionale della magistratura è veramente forte, ed entra in questioni personalissime, come la valutazione delle idee, delle convinzioni personali e dell’idoneità morale. Nel secondo caso, naturalmente, non c’è nulla del genere. Ma comunque – prosegue D’Agostino – l’analogia tra le due situazioni regge. E regge il principio, che deve valere per entrambe, della non liceità della selezione dei caratteri del bambino. Regge per l’ordinamento italiano, peraltro, perché altrove non è così. Non è così negli Stati Uniti, dove è possibile scegliere le caratteristiche dell’adottato, perché altrimenti il meccanismo delle adozioni si incepperebbe”.
E dove sappiamo che del figlio concepito in vitro si può scegliere davvero tutto, sesso compreso. Tornando alla sentenza della Cassazione, conclude D’Agostino, “con la quale sono d’accordissimo, credo possa essere una buona occasione per rilevare che in queste dinamiche genitori-figli (sia quella adottiva sia quella legata alla procreazione artificiale) ci siano principi etici fondamentali che non sono semplicemente riducibili al rispetto della Costituzione, ma che vanno molto al di là. Allo stesso tempo, però, dobbiamo constatare che, nella realtà, per la fecondazione artificiale si dà per scontato che entrino in gioco quelle stesse preferenze soggettive che ci appaiono illegittime nel caso delle adozioni”.
http://www.ilfoglio.it/soloqui/5302
La Cassazione dice (giustamente) che chi vuole adottare un bambino non può scegliere le sue caratteristiche etniche e genetiche. Ma allora perché dovrebbe essere possibile selezionare embrioni nella fecondazione in vitro?
E’ davvero unanime il plauso per la sentenza con la quale, il 28 aprile scorso, la Cassazione ha sancito che “il decreto di idoneità all’adozione pronunciato dal tribunale dei minorenni non può essere emesso sulla base di riferimenti all’etnia dei minori adottandi, né può contenere indicazioni relative a tale etnia”, e con la quale ha stabilito anche che non sono ammissibili preferenze per “determinate caratteristiche genetiche” dei bambini candidati all’adozione. Chi vuole adottare un bambino, insomma, non può selezionarne le caratteristiche più gradite, né etniche né genetiche.
Sarebbe logico aspettarsi che quel compiacimento generale per il rafforzamento giuridico di un principio basilare – un figlio non deve rispondere ai desideri dei genitori ma va accolto per quel che è, perché è la sua qualità di essere umano a prevalere su tutto – potesse estendersi, per analogia, ai figli della fecondazione artificiale. Se lo augura l’onorevole Rocco Buttiglione: “La Cassazione ribadisce il principio che un bambino non è un giocattolo per soddisfare i desideri degli aspiranti genitori, ma un essere umano, una persona, con diritti propri da rispettare comunque egli sia. Allora non vale lo stesso principio anche nel caso della selezione degli embrioni? E della selezione delle caratteristiche degli embrioni?”.
Dovrebbe valere lo stesso principio, infatti. Ma la rivoluzione antropologica inaugurata nel 1978 con la nascita di Louise Brown, la prima figlia della provetta, oppone molte resistenze a quell’analogia. Gli esseri umani allo stato embrionale concepiti in vitro, fuori dal corpo materno, appaiono sempre più ridotti a cose: sostituibili, manipolabili, scartabili, selezionabili, privi di valore per se stessi, dato che il loro valore è stabilito, di volta in volta, da chi giudica della loro idoneità a realizzare i desideri di una certa coppia. E quanti, tra coloro che si scandalizzano per chi non vuole in adozione un bambino con la pelle diversa dalla propria, è disposto a scandalizzarsi o semplicemente a inquietarsi se si chiede di selezionare in vitro le caratteristiche del figlio, o se si mette in conto che un certo numero di embrioni prodotti nelle pratiche di procreazione artificiale saranno destinati a non essere mai impiantati? In Italia non succede, grazie alle regole della legge 40, ma c’è chi lotta strenuamente perché quelle regole siano smantellate.
Il filosofo del diritto Francesco D’Agostino, presidente onorario del Comitato nazionale di bioetica, dice al Foglio che “una sentenza come quella della Cassazione in tema di adozioni dovrebbe poter mandare un segnale di coerenza anche per quanto riguarda i figli della fecondazione in vitro. Non dobbiamo dimenticare, comunque, che chi vuole adottare è soggetto a una valutazione preliminare della magistratura, cosa che certo non avviene per le coppie che chiedono di avviare pratiche di procreazione artificiale. Nel caso delle adozioni, il potere decisionale della magistratura è veramente forte, ed entra in questioni personalissime, come la valutazione delle idee, delle convinzioni personali e dell’idoneità morale. Nel secondo caso, naturalmente, non c’è nulla del genere. Ma comunque – prosegue D’Agostino – l’analogia tra le due situazioni regge. E regge il principio, che deve valere per entrambe, della non liceità della selezione dei caratteri del bambino. Regge per l’ordinamento italiano, peraltro, perché altrove non è così. Non è così negli Stati Uniti, dove è possibile scegliere le caratteristiche dell’adottato, perché altrimenti il meccanismo delle adozioni si incepperebbe”.
E dove sappiamo che del figlio concepito in vitro si può scegliere davvero tutto, sesso compreso. Tornando alla sentenza della Cassazione, conclude D’Agostino, “con la quale sono d’accordissimo, credo possa essere una buona occasione per rilevare che in queste dinamiche genitori-figli (sia quella adottiva sia quella legata alla procreazione artificiale) ci siano principi etici fondamentali che non sono semplicemente riducibili al rispetto della Costituzione, ma che vanno molto al di là. Allo stesso tempo, però, dobbiamo constatare che, nella realtà, per la fecondazione artificiale si dà per scontato che entrino in gioco quelle stesse preferenze soggettive che ci appaiono illegittime nel caso delle adozioni”.
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