Vuoi risparmiare sulle tasse? Divorzia
A una coppia di coniugi milanesi è stato consigliato di separarsi per salvare il bilancia familiaredi Carlo LottieriÈ nota la situazione di quelle vedove che, per mantenere il diritto alla pensione di reversibilità legata al marito defunto, decidono di sposarsi soltanto in chiesa: unendosi in matrimonio davanti a Dio, ma continuando una vita da single di fronte allo Stato, al fine di non perdere il vitalizio. Ora però ci si trova a fare i conti con un caso nuovo, dato che - come spiegava ieri «IlSole24 Ore» - a una coppia è stato consigliato di divorziare per migliorare il proprio bilancio.
La vicenda è la seguente. Una signora milanese di 64 anni che ha lavorato soltanto 15 anni e quindi ha diritto a una pensione minima, in realtà non riceve i 500 euro che le spetterebbe, ma solo 192 euro, dato che il marito ha un reddito superiore ai 17 mila euro annui. Per giunta, non è neppure considerata interamente a carico del coniuge dato che supera di un centinaio di euro la soglia minima dei 2.840 euro annui. Per tale ragione la coppia subisce uno svantaggio all'incirca di 800 euro in più di imposta, senza poter beneficiare della gratuità dei farmaci e neppure dell'opportunità di detrarre tali costi dalla dichiarazione. Il quadro generale ha tutti gli elementi di una trappola, poiché abbiamo persone che stanno peggio di quanto sarebbero state se avessero avuto entrate inferiori. Se i coniugi avessero guadagnato un po' meno, avrebbero ottenuto una serie di vantaggi che, a conti fatti, ne avrebbero migliorato la situazione. Sembra un'assurdità, eppure è l'esito prevedibile di quel processo di sovraproduzione legislativa destinato per sua natura a causare, presto o tardi, conseguenze non volute: e quasi sempre si tratta di conseguenze spiacevoli.
Stando alle cronache, la donna non lascerà il marito, anche se le costerà caro. Ma certo la vicenda deve aprire gli occhi su come la produzione continua di leggi finisca per avvitarsi su di sé.
Si pensi alla condizione di chi ottiene un minimo aumento di reddito che lo porta, però, a perdere il beneficio di taluni servizi sanitari gratuiti, a pagare una retta più alta per l'asilo del figlio, e via dicendo. Chi ha predisposto le singole regole ha operato con la convinzione di aiutare i più deboli, introducendo tariffe differenziate, ma non si è reso conto come tutto questo inneschi meccanismi perversi.
In questo welfare caotico che mescola norme di diversissima provenienza può accadere - come nel caso ricordato - che sia conveniente guadagnare meno. E lo sanno assai bene quegli artigiani che quando tracciano a inizio dicembre un bilancio di massima della loro attività si rendono conto come sia opportuno smettere di produrre: proprio per evitare penalizzazioni.
Dinanzi a ciò è giusto indignarsi, ma non ci può stupire, dato che il legislatore è un «pianificatore» determinato a organizzare la società secondo un proprio disegno, ma che dispone di una limitata conoscenza della realtà: né potrebbe essere diversamente. Per giunta ogni norma viene ad aggiungersi a un sistema normativo già esistente e di grande complessità, così che è difficile per chi lavora in Parlamento avere sotto controllo tutte le implicazioni delle scelte che vengono assunte. Alla fine ogni norma nuova interviene in un quadro farraginoso ed è approvata da soggetti inconsapevoli di come essa s'innesterà sull'ordine giuridico complessivo.
C'è solo una via di uscita: chiedere al Parlamento e ai mille altri attori della ragnatela di norme in cui viviamo di limitarsi. Se le catene del nostro tempo sono costruite con la carta di burocrati e legislatori, è bene chiedere loro di astenersi quanto più sia possibile.
Per giunta è opportuno che il sistema di welfare si semplifichi. Se proprio si vuole tenere in vita un sistema redistributivo, si usi una leva e solo quella. Si dia più soldi a chi non ha, ma poi non si introducano altri vantaggi quando si deve fare un abbonamento al tram, acquistare un farmaco e via dicendo.
Se non si farà così, ci si troverà di continuo a sorprendersi di fronte a coppie spinte a separarsi non perché sia finito un amore, ma perché l'ordine giuridico è impazzito. E ci fa impazzire sempre di più.
Da Il Giornale, 8 ottobre 2010
La vicenda è la seguente. Una signora milanese di 64 anni che ha lavorato soltanto 15 anni e quindi ha diritto a una pensione minima, in realtà non riceve i 500 euro che le spetterebbe, ma solo 192 euro, dato che il marito ha un reddito superiore ai 17 mila euro annui. Per giunta, non è neppure considerata interamente a carico del coniuge dato che supera di un centinaio di euro la soglia minima dei 2.840 euro annui. Per tale ragione la coppia subisce uno svantaggio all'incirca di 800 euro in più di imposta, senza poter beneficiare della gratuità dei farmaci e neppure dell'opportunità di detrarre tali costi dalla dichiarazione. Il quadro generale ha tutti gli elementi di una trappola, poiché abbiamo persone che stanno peggio di quanto sarebbero state se avessero avuto entrate inferiori. Se i coniugi avessero guadagnato un po' meno, avrebbero ottenuto una serie di vantaggi che, a conti fatti, ne avrebbero migliorato la situazione. Sembra un'assurdità, eppure è l'esito prevedibile di quel processo di sovraproduzione legislativa destinato per sua natura a causare, presto o tardi, conseguenze non volute: e quasi sempre si tratta di conseguenze spiacevoli.
Stando alle cronache, la donna non lascerà il marito, anche se le costerà caro. Ma certo la vicenda deve aprire gli occhi su come la produzione continua di leggi finisca per avvitarsi su di sé.
Si pensi alla condizione di chi ottiene un minimo aumento di reddito che lo porta, però, a perdere il beneficio di taluni servizi sanitari gratuiti, a pagare una retta più alta per l'asilo del figlio, e via dicendo. Chi ha predisposto le singole regole ha operato con la convinzione di aiutare i più deboli, introducendo tariffe differenziate, ma non si è reso conto come tutto questo inneschi meccanismi perversi.
In questo welfare caotico che mescola norme di diversissima provenienza può accadere - come nel caso ricordato - che sia conveniente guadagnare meno. E lo sanno assai bene quegli artigiani che quando tracciano a inizio dicembre un bilancio di massima della loro attività si rendono conto come sia opportuno smettere di produrre: proprio per evitare penalizzazioni.
Dinanzi a ciò è giusto indignarsi, ma non ci può stupire, dato che il legislatore è un «pianificatore» determinato a organizzare la società secondo un proprio disegno, ma che dispone di una limitata conoscenza della realtà: né potrebbe essere diversamente. Per giunta ogni norma viene ad aggiungersi a un sistema normativo già esistente e di grande complessità, così che è difficile per chi lavora in Parlamento avere sotto controllo tutte le implicazioni delle scelte che vengono assunte. Alla fine ogni norma nuova interviene in un quadro farraginoso ed è approvata da soggetti inconsapevoli di come essa s'innesterà sull'ordine giuridico complessivo.
C'è solo una via di uscita: chiedere al Parlamento e ai mille altri attori della ragnatela di norme in cui viviamo di limitarsi. Se le catene del nostro tempo sono costruite con la carta di burocrati e legislatori, è bene chiedere loro di astenersi quanto più sia possibile.
Per giunta è opportuno che il sistema di welfare si semplifichi. Se proprio si vuole tenere in vita un sistema redistributivo, si usi una leva e solo quella. Si dia più soldi a chi non ha, ma poi non si introducano altri vantaggi quando si deve fare un abbonamento al tram, acquistare un farmaco e via dicendo.
Se non si farà così, ci si troverà di continuo a sorprendersi di fronte a coppie spinte a separarsi non perché sia finito un amore, ma perché l'ordine giuridico è impazzito. E ci fa impazzire sempre di più.
Da Il Giornale, 8 ottobre 2010
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